Piccoli crimini coniugali

di Eric-Emmanuel Schmitt
Adattamento e regia di Michele Placido pure interprete con Anna Bonaiuto Scene: Gianluca Amodio
Costumi: Alessandro Lai
Musiche: Di Maggio & Luna
Luci: Pasquale Mari
Produzione: Goldernat

Se per Sartre l’inferno sono gli altri, per Eric-Emmanuel Schmitt, autore della pièce Piccoli crimini coniugali – adattata, interpretata e messa in scena da Michele Placido al Vittorio Emanuele di Messina avendo come partner Anna Bonaiuto – il matrimonio è “un’associazione a delinquere finalizzata alla distruzione del compagno/a”, al punto che uno dei due può tramutarsi in un potenziale assassino. E’ evidente che più conosci l’altro/a, più riesci ad entrare nella sua testa e individuare i suoi lati peggiori e/o migliori. Che sono poi quelli che permetteranno ad una coppia di vivere (all’apparenza) tranquillamente, senza dover ricorrere a delitti esemplari alla maniera di Max Aub. La letteratura e il teatro hanno avuto da sempre un’attenzione particolare ai problemi di coppia, cui poi ha attinto il cinema e la televisione. Basti citare Strindberg, Ibsen, Cechov, Pirandello, Joyce, Svevo Bergman etc…e Schmitt allunga la folta schiera di drammaturghi che in vari modi, compresi aforismi detti motti e frasi celebri, hanno trattato la materia maritale, innestandovi lo scrittore franco-belga una variante non di poco conto che è la perdita di memoria (vera o falsa si capirà più avanti) del personaggio maschile interpretato da Placido, causata da una caduta nella scala a chiocciola in bella vista nel salotto di casa propria (scena di Gianluca Amodio). Lui (Placido) è Marco, uno scrittore di noir, autore del libro Piccoli crimini coniugali mai digerito dalla moglie Lisa della Bonaiuto, perché troppo realista e perché si sente offesa da quanto scritto del marito. Li vediamo all’inizio rientrare in casa dall’ospedale con Lisa che cerca di mettere a proprio agio colui che non ricorda d’essere suo marito e d’aver abitato in quell’appartamento. Da qui in avanti inizia un gioco pericoloso come quello del gatto col topo, dove le parti s’invertono spesso non riuscendo più a capire chi sia il gatto e chi il topo. Lisa cerca di ricostruire la vita di Marco. Addirittura cerca di plasmarlo a proprio piacimento dicendogli che prima dell’incidente lui non era geloso, non usciva di casa e facevano shopping insieme. Chiaramente senza riuscirvi perché Marco, al pari dell’Enrico IV di Pirandello che fa finta d’aver perduto la memoria, vuole sentire e vedere dove lo vuole condurre la moglie. Chi si finge

 

smemorato spesso utilizza questa apparente défaillance per scoprire verità vere di cui si vuole avere certezza. Grosso modo è ciò che fanno i seguaci di Socrate quando sapendo dicono di non sapere. Entrambi dopo quindici anni di matrimonio hanno delle cose da nascondere. Lei il vizietto dell’alcol, lui quello di scappatelle innocue. Lei ha paura d’essere lasciata per una donna più giovane, lui che la moglie possa avere un amante. E non è vero che lui ha inciampato nei gradini della scala, ma è stata lei che in un momento di follia lo ha colpito in testa con un pesante oggetto. A chi bisogna credere? La vita matrimoniale è davvero questo inferno di crudeltà mentale? Sia Placido che la Bonaiuto si ritrovano in uno stato di grazia, lui misurato e asciutto in perfetta forma, lei splendida nel suo ruolo di moglie che alla fine cercherà d’andar via di casa per ritornarvi subito dopo e abbracciare il marito che ama-riamata. Uno spettacolo realista, crudele, tenero che farà discutere molti spettatori che in sintonia con Schmitt potranno dire che quando vedranno un uomo e una donna davanti ad un sindaco o ad un prete bisogna chiedersi chi dei due sarà l’assassino.

Gigi Giacobbe

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