Era un fantasma
di Arianna Mattioli
Regia di Lorenzo Lavia
con Ninni Bruschetta, Lodo Guenzi, Matteo Branciamore, Lorenzo Lavia
Produzione Savà Produzioni Creative, Teatro della Contrada di Trieste, Todi Festival
La Scena è di  Gianluca Amodio,  i Costumi Alessandro Lai,  il Disegno luci di Pietro Sperduti
Debutto nazionale
Todi Festival 2020, Teatro Comunale 3 Settembre 2020

Un grande trauma si può dimenticare? Ciò che sconvolge l’uomo, solo in apparenza scompare lasciando che ogni traccia svanisca nel nulla, come se mai fosse esistita. Ma – e Freud ben lo sapeva – si tratta di un’illusione che solo la mente razionale di stampo illuminista può coltivare. Gli eventi della vita che più sgomentano non alla ragione si rivolgono, bensì a qualcosa di più profondo – l’inconscio –, e da lì continuano a dare cenni della loro esistenza, senza mai tacere, senza mai smettere. Noi non ce ne accorgiamo, ma ogni nevrosi, ogni timore ancestrale: tutto ciò che difficilmente può essere tradotto in parole, ha la sua origine – fondamento lo chiamerebbe Heidegger – in quell’oscura parte di noi che Jung invitava a integrare nella luce per potervi convivere serenamente: perché i traumi non si risolvono ma si superano.
Cosa c’è di più doloroso della malattia di una madre, costretta per sedici anni a letto in casa, in coma, intubata, attaccata a un respiratore artificiale per poter vivere? Cosa di più orrendo da far cadere nell’oblivione totale sapere che a ridurre così la donna è stato uno dei suoi figli a causa di un incidente d’auto? Questo il plot sui s’impernia e sviluppa la pièce di Arianna Mattioli, Era un fantasma, che ha aperto il Festival di Todi.
In scena quattro personaggi: un padre (Ninni Bruschetta) e i suoi tre figli. Lui è un uomo comune, che pensa ai bisogni più elementari – mangiare, bere, dormire – e tutto vuole ridurre ad una normalità che ha tinte banali, asfittiche. Questo padre è per giunta prepotente, egocentrico ed egoista e mai si è calato nei panni degli altri, soprattutto della moglie e dei figli. I quali mostrano caratteri tutti tendenti a forme di autismo più o meno intenso. È come se questa famiglia, approfittando di ogni occasione, cercasse di proteggersi da qualcosa, di fuggire da una realtà scomoda – la madre in coma intubata – che non piace. Ma più che il fatto in sé è il motivo ad atterrire: la donna, nella smania di scoprire in flagrante il marito con la sua amante, chiede ad uno dei figli (ancora minorenne e senza patente) di accompagnarla con la macchina dal marito. Durante il tragitto avviene il fatale incidente.
Una storia – amara – come tante. Cosa ci racconta di noi la Mattioli? Molto poco in verità. Però con questa pièce ha ripreso il tratto più noto, a suo modo più bello, di Moravia: raccontare gli altrui universi osservandoli dal buco della serratura senza renderli metafore di qualcosa d’altro.
Discreta la regia di Lorenzo Lavia, non innovativa e anzi conforme ai criteri d’un modo di fare teatro in voga nel secondo Novecento. Originale tuttavia l’idea d’inscrivere l’intera azione entro un binario elettrico chiuso a cerchio sul quale corre un rumoroso trenino: simbolo del tempo morto che scorre, intrappolando tutto e tutti.
Si può evadere da questa prigione? Forse. Ma la Mattioli pare non offrire vie di fuga, neppure fingendo di vivere un’altra realtà. Nemmeno ignorando quella che la vita ci offre.

Pierluigi Pietricola

FONTE
SIPARIO 05/09/2020

CONTATTAMI

14 + 12 =